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Fotostoria ,Programma e interventi, Bollettino regionale, Progetto, Riassunto delle iniziative, Rendiconto e spese generali, COnto verde e Conto viola
   

Avviso Pubblico - Determinazione - numero G13523 del 04/10/2017

INTERVENTI REGIONALI PER LO SVILUPPO DEL CINEMA E DELL’AUDIOVISIVO (Legge regionale 13 Aprile 2012, n.2 e s.m.i.). MODALITA’ E CRITERI PER LA CONCESSIONE DI CONTRIBUTI PER LE INIZIATIVE PER LA PROMOZIONE DELLA CULTURA CINEMATOGRAFICA E AUDIOVISIVA
Riassunto delle iniziative, Indice, Consuntivo e elenco pagamenti,

CHI CI SALVA DALL'INTEGRAZIONE? ECOLOGIA DELLA SALUTE MENTALE A 40 ANNI DALLA LEGGE 'BASAGLIA'

 

 

 

L’associazione Oltre l’Occidente nella ricorrenza nel 2018 del 40° anniversario della legge Basaglia, propone una serie di iniziative su tutto il territorio provinciale. Il titolo della iniziativa è “CHI CI SALVA DALL'INTEGRAZIONE? ECOLOGIA DELLA SALUTE MENTALE 40 ANNI DI LEGGE BASAGLIA”, e nasce dalla collaborazione decennale della scrivente Associazione con il centro diurno di Frosinone Orizzonti Aperti.  

Il progetto si compone di una serie di proiezioni e un corrispondente confronto sui temi quali salute mentale, integrazione, diversità, accoglienza, cittadinanza, muri, lavoro…  durante tutto il 2018. A questo si stanno aggiungendo proposte di altre attività legate al recupero della memoria del territorio.

Tale progetto è stato selezionato dalla Regione Lazio, Direzione Cultura e Politiche Giovanili, nell’ambito delle “Iniziative per la promozione e la valorizzazione del patrimonio audiovisivo per l'anno 2018”.

Si chiede di aderire al progetto che verrà presentato il 4 maggio a Ceccano nella cappella, oggi sala conferenze, dell’ex manicomio di Ceccano dalle 17.30. Contestualmente alla presentazione si chiederà agli interessati di collaborare e proporre iniziative e contribuire con un lavoro sulla memoria dei lunghi cento anni del manicomio di Ceccano ad una riflessione sui servizi oggi che operano sul territorio.

Certi dell’interesse, ci si augura di incontrarci a Ceccano il 4 maggio p.v.

IL PROGETTO

L'associazione Oltre l'Occidente propone alcuni momenti di riflessione e iniziative che prevedono l’uso del cinema e degli audiovisivi come momento di prevenzione del disagio sociale e della marginalizzazione sul problema della salute mentale a 40 anni dalla legge 180, calando tale riflessione nella realtà territoriale: la provincia di Frosinone

 L'Associazione lavora fin dalla sua nascita anche nel campo della salute mentale con intensa collaborazione con il centro diurno Orizzonti Aperti afferente al DSMPD della ASL di Frosinone. La collaborazione nacque proprio con una serie di cineforum che venivano organizzati, a seconda degli anni,  nella sede del centro diurno o nella sede dell’associazione. A ciò hanno fatto seguito dibattiti, incontri, pubblicazioni nonché progetti strutturati per persone con disagi psichici per reinserimenti lavorativi presso i locali dell’associazione a sostegno del progetto biblioteca.

 Analisi del contesto :

La salute mentale e il benessere sono al centro della qualità di vita delle persone e della società. La stessa UE ha messo in evidenza l'importanza della salute mentale nella realizzazione di misure pratiche in questi ambiti. La discriminazione e l'esclusione sociale delle persone con problemi mentali e delle loro famiglie sono la conseguenza sia del disordine mentale che dello stigma, dell'allontanamento e dell'esclusione dalla società.

E’ importante organizzare campagne di informazione pubblica e di sensibilizzazione attraverso i media, Internet e le istituzioni che incrociano i bisogni dei cittadini al fine di promuovere la salute mentale, di aumentare le conoscenze, di destigmatizzare i disturbi mentali e favorire la ricerca della migliore e più efficace risposta. Tutte queste azioni sono a sostegno e favoriscono il protagonismo degli utenti.

I media svolgono un ruolo cruciale nell’influenzare la percezione dell’omologante concetto di normalità, che toglie spazio alla rappresentazione individuale di sé e della propria irriducibile diversità. Sarebbe auspicabile che i soggetti destinatari di stigma o di esclusione si riappropriassero della conoscenza di tali strumenti e ne facessero un uso di promozione dei diritti.

 A 40 anni di distanza dalla legge 180 si vorrebbe affrontare, così come Basaglia aveva avvertito, il problema del disagio psichico nella società, evidenziandone il suo aggancio appunto sociale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell' "intera comunità".

 «La chiusura del manicomio è  stato il più grande atto di ecologia della mente  nel nostro secolo, reso possibile da precisi fattori politici, psicoanalitici, psicofarmacologici, perché ha reso reversibili processi che sembravano irreversibili. Incomprensibilità, irrecuperabilità, incurabilità della follia si stanno trasformando in possibile comprensione, recupero, guarigione» (Paolo Tranchina).

 Perché cinema e salute mentale? Il cinema consente allo spettatore di immedesimarsi, emozionarsi, esprimersi: cinema come conoscenza di sé e dell’altro da sé. Permette di prendersi cura dei legami sociali. Attraverso le immagini e le emozioni della storia messa in scena, si ampliano le proprie prospettive e si conoscono storie di vita diverse: il cinema è uno spazio di confronto e di crescita, è condivisione di esperienze emotive e cognitive, è elemento di aggregazione; consente di comprendere realtà apparentemente distanti dalla propria. La partecipazione sociale ad un contesto culturale, come quello di una rassegna cinematografica, favorisce lo sviluppo del sentimento di appartenenza ed identità sociale ovvero di cittadinanza.

Ma non solo fruizione… Accanto alla proiezione dei film, ci sarà contestualmente la nascita di una redazione nel centro diurno per gestire un blog già nato, ‘unlocked’, recuperando non solo la scrittura ma anche materiale audio/video a seguito di un corso di preparazione alle riprese e al montaggio. Tale redazione organizzerà e supporterà tecnicamente i dibattiti conseguenti ai film sui temi della salute mentale. Verranno aperti spazi sui social network che consentiranno l’autorappresentazione e la capacità di cogliere attraverso uno strumento, quale quello degli audiovisivi, aspetti non facilmente individuabili senza la necessaria sensibilità.

Questionario per studenti (in pdf), Materiale per insegnanti
   

LA LEGGE BASAGLIA: UNA CONQUISTA DI CIVILTÀ CHE RISCHIAMO DI PERDERE di Daniele Riggi

Ricorre il quarantesimo anniversario della legge n. 180/1978, nota soprattutto come “Legge Basaglia”, che ha riformato l'organizzazione dell'assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale nel nostro Paese, imponendo la chiusura dei manicomi. Il grande ispiratore della legge fu lo psichiatra veneziano Franco Basaglia che nel corso degli anni Sessanta e Settanta, assieme ad altri psichiatri italiani appartenenti al movimento Psichiatria Democratica, si batté per una concezione moderna della salute mentale. Credo che l'essenza del pensiero basagliano possa essere riassunta dal seguente passaggio, che si trova nell'opera Che cos'è la psichiatria?:  «Ogni società, le cui strutture siano basate soltanto su una discriminazione economica, culturale e su un sistema competitivo, crea in sé delle aree di compenso che servono come valvole di scarico all'intero sistema. Il malato mentale ha assolto questo compito per molto tempo, anche perché era un "escluso" che non poteva conoscere da sé i limiti della sua malattia e quindi ha creduto - come la società e la psichiatria gli hanno fatto credere -  che ogni suo atto di contestazione alla realtà in cui è costretto a vivere, sia un atto malato, espressione della sindrome di cui soffre». Il percorso rivoluzionario di Basaglia cominciò negli anni Sessanta all'interno dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, dove fu avviata la prima esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati di mente. Lo psichiatra veneziano decise di sostituire i metodi repressivi della vecchia psichiatria, come ad esempio la contenzione fisica e le terapie elettroconvulsivanti, con nuove modalità di terapia che, per la prima volta, mettevano al centro non la malattia ma la persona, con la sua dignità, i suoi bisogni, i suoi desideri. Nel corso degli anni le critiche rivolte alla legge 180 sono state numerose, la più ricorrente è senza dubbio quella che accusa la legge di trascurare la pericolosità dei malati. In realtà oggi l'unica certezza che abbiamo è che la legge Basaglia, a quasi quarant'anni dalla sua introduzione non è mai stata applicata del tutto. Nella maggioranza delle Regioni italiane, che sono responsabili dell'attuazione dei provvedimenti in materia di salute mentale, le amministrazioni, come accade spesso nel nostro Paese, hanno visto la legge solamente come un'occasione per risparmiare soldi e risorse. Il risultato è che oggi i servizi territoriali sono nella maggior parte dei casi carenti e, inoltre, sono distribuiti in maniera disomogenea sul territorio; solo in poche regioni i principi della legge 180 sono stati tradotti in buone pratiche. In sostanza, il nostro Paese è stato il primo, e per adesso l'unico, ad abolire i manicomi per trasformare l'assistenza psichiatrica in un servizio territoriale vicino alle esigenze del malato, però non è stato in grado di portare a compimento questa straordinaria rivoluzione. Nella società di oggi, dove sono considerate più importanti le istanze di sicurezza che la cura del prossimo, la riapertura dei manicomi, purtroppo, sta diventando un rischio concreto. L'unico modo per scongiurare questo rischio nel nostro Paese è destinare più risorse alla salute mentale. In Italia impieghiamo solamente il 3% del fondo sanitario nazionale nella salute mentale, mentre, invece, paesi come la Francia e il Regno Unito investono il 12%.

Ricordi di Patrizia Monti

18 maggio 1978, avevo dovuto chiedere il nulla osta all’Università di Roma per poter effettuare il tirocinio pre-laurea a Napoli, dove risiedevo. Erano le 8.30 e stavo percorrendo il viale d’accesso al Leonardo Bianchi, calata Capodichino, l’ospedale psichiatrico di Napoli, ‘o manicomio’. Avevo ancora nelle orecchie la voce della donna, che sull’autobus mi aveva indicato la fermata che mi diceva: “signurì ma si sicura c’a ce vuò trasì là ddint”?

Che ci sarà qua dentro? Intanto un bel parco e, al di là dell’alto muro di tufo, la città sempre più lontana, e pensavo:  “incredibile non sento più i rumori e le voci della strada”. Ero stata assegnata all’osservazione donne, il reparto dove si ricoveravano le donne prima dell’assegnazione ai reparti di competenza dopo la valutazione degli psichiatri. Ma quella mattina c’era aria di smantellamento un incredibile viavai di persone, il sole attraverso le foglie fitte degli alberi creava effetti luce sulle vetrate e nei lunghi corridoi. Il gran vociare mi risuonava come foriero di novità anche lì in quel luogo sempre uguale a se stesso. Certamente non si era mai visto tutto quel movimento di camici, di carrelli, di suore di pazienti vestiti alla meglio che giravano come turisti spaesati dall’estraneità dei luoghi e dei paesaggi. Cinque giorni dall’approvazione della legge Basaglia ed io iniziavo il mio tirocinio in manicomio: chissà forse avrei lavorato alla chiusura di quel luogo. Seguivo le indicazioni della segnaletica il reparto osservazione donne era in fondo all’ampio corridoio che stavo percorrendo. Cancello, porta vetro, cancello. Citofonai  e restai in attesa. Una suora venne ad aprirmi poi iniziò il rituale di apertura e chiusura che si ripeteva ogni volta che dovevo entrare e uscire, compreso l’attimo in cui eravamo entrambe chiuse fra le due porte. Il primo giorno non vidi niente del reparto e per molti giorni a seguire finché il primario non diede disposizione di farmi conoscere i pazienti. Intanto avevo imparato la storia di quel luogo formato da una costruzione centrale e 53 palazzine. Il primo direttore fu Leonardo Bianchi a cui fu poi intitolato; neuropsichiatra liberale di formazione lombrosiana e innovatore per i suoi tempi: eliminò la camicia di forza e introdusse l’elettroshock. E ora dopo 69 nove anni bisognava avviare la chiusura della “città dei folli” che si concluderà nel 2002.

In quegli anni, la testimonianza, in Inghilterra di Cooper e Laing, in Francia di Foucault, Deleuze, Guattari, e Castel, in America di Goffman, aveva permesso che anche in Italia filosofi, sociologi, politici, poeti e storici parlassero di psichiatria. Un fermento culturale che faticava a superare il “muro di tufo”. Stavo leggendo L’Io diviso di Laing e Asylum di Goffman e ogni mattina ero chiusa in un reparto del manicomio per fare la mia esperienza diretta della malattia mentale e della sua cura che era stata definita non cura. Il primo reparto che aprì le porte fu quello diretto dal Dr. Guelfo Margherita, ricordo che era indicato dai colleghi del reparto in cui andavo io, come il sessantottino, che equivaleva a rivoluzionario. Fu anche arrestato con l’accusa incredibile di segregare i malati come in un lager e scagionato dopo quattro giorni di reclusione.[1] Era molto faticoso cogliere la coerenza fra quello che si studiava, la legge, il contesto politico e culturale, l’opinione pubblica e l’esperienza quotidiana di quella vera e propria “segregazione”. In realtà anch’io non ero libera di muovermi autonomamente, e di pensare diversamente. Ricordo una mattina in cui arrivai insieme al carrello della lavanderia che riportava la biancheria. Entrai quindi senza trovare la suora o l’infermiere inviato da lei, letteralmente a prelevarmi dall’ingresso e a condurmi ai piani della dirigenza. E così entrai in reparto. Mi venne incontro una giovane donna molto grossa rispetto a me, completamente nuda che mi sorrideva, Anna. Iniziammo a parlare, sedute sulle sponde del letto, in una camerata dove erano sistemati diversi letti. Era palesemente contenta di raccontare la sua storia e dopo un po’ cercò qualcosa per coprire il suo corpo. Restammo così forse per una mezz’ora fino all’arrivo della suora urlante. Mi accompagnò su e lungo la scala non fece che dirmi che avevo rischiato la mia incolumità e inoltre mi ero anche intrattenuta con una “lesbica”. Dal quel giorno il controllo fu ancora più attento, e quando iniziarono i colloqui con le pazienti comunque non mi fecero parlare con Anna.  Dopo diversi mesi rincontrai Anna. Era stata in visita dal medico. Anche quella volta ero sola su per la scala ci salutammo poi le mi puntò il dito ad altezza di viso e guardandomi dritto negli occhi mi sussurrò “tu hai paura di me”. Quella frase mi rivelò un aspetto dell’esperienza che stavo facendo: mi stavano addestrando ad aver paura e probabilmente non se ne rendevano nemmeno conto.

L’intuizione di base del lavoro di Basaglia era che bisognava modificare l’immagine del malato, non solo all’esterno, ma anche all’interno del manicomio, dove i ruoli erano funzionali all’autoconservazione dell’istituzione. E la paura era uno strumento per costruire un ruolo funzionale all’istituzione.

In quei sei mesi partecipai agli incontri con le famiglie delle pazienti definite dimissibili sia presso i loro domicili che nel reparto. Quando la mia esperienza finì nessun progetto era andato a termine. Ma sono convinta che è stato proprio fra quelle mura che si sono radicati in me i principi che hanno poi sostenuto le mie scelte formative e in seguito il mio lavoro quotidiano.

Dopo cinque anni la Regione Campania istituì i servizi territoriali e il primo ottobre 1984 iniziò la mia avventura lavorativa contemporaneamente ad altri 101 psicologi e 56 sociologi destinati ai 60 servizi territoriali.

I centri di salute mentale e i centri diurni  rientrano in quella rete di servizi territoriali nati dalla riforma dell’assistenza psichiatrica promossa dal lavoro di Franco Basaglia che ha ripristinato canali comunicativi che sembravano interrotti per sempre.

Il ripristino di un dialogo reale fra i pazienti, i medici e gli infermieri ha permesso al quotidiano di trasformarsi da “pratica routinaria” in “esperienza clinica” da narrare, e di “praticare una comunicazione ricca di conseguenze”. Il ripristino della “comunicazione” aveva spostato nella collettività il rapporto problematico con la follia, reso impossibile, fino ad allora, dall’innalzamento delle mura manicomiali, fortificazioni non solo materiali, ma anche di comunicazione fra malato e comunità.

Oggi dopo tanti anni di esperienza lavorativa posso dire che nel rapporto con i pazienti è più facile essere catturati da quello che ci disturba e che provoca una nostra reazione immediata piuttosto che cogliere la paura del vuoto, la paura di entrare in rapporto proprio come accadeva nei corridoi del manicomio che rappresentava una fortificazione difensiva dal confronto.

Allora l’avevo intuito, poi l’ho imparato nella mia pratica lavorativa, che essere degni di fiducia significa riuscire a costruire una relazione significativa che ci permette di accogliere il bisogno di affetto e di intimità del paziente. La costruzione della relazione è un atto comunicativo che si fonda sulla consapevolezza di sé, del ruolo e della funzione e che ci consente di muoverci con la sola ‘rapidità’ che il paziente può sopportare.

Solo così possiamo ‘trasformarci’ in interlocutori che per ottenere risposte non propongono ‘domande’ ma la loro ‘presenza’ e l’intenzione di portare avanti il proprio lavoro ‘qualunque sia la risposta’.


[1] Lui stesso ripropone una lettura di quegli anni nel suo libro Manicomio addio, 2017 Alpes.

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In ricordo di Franco Basaglia, della redazione del blog UNLOCKED.ORG del Centro Diurno “Orizzonti Aperti”

 Il giorno 13/04/2018 noi ragazzi della redazione del blog (UNLOCKED.ORG) del Centro Diurno “Orizzonti Aperti” ci siamo riuniti in vista dell’imminente anniversario dei 40 anni della Legge 180 (13 Maggio 1978) per discutere ed approfondire la conoscenza dei passi che, grazie soprattutto a Franco Basaglia, hanno portato, per nostra fortuna, alla chiusura dei manicomi. Hanno partecipato all’incontro anche Daniele, Anna Maria e Nadia, psicologi tirocinanti.

 In questa giornata di condivisione, abbiamo visto alcune scene tratte dal film “C’era una volta la città dei matti” ma una ci è rimasta particolarmente impressa: l’attrice Vittoria Puccini che interpretava una paziente del manicomio di Gorizia, istituto dove Basaglia era da poco diventato direttore, era rinchiusa in una sorta di gabbia; su  richiesta del direttore, è stata fatta aprire la gabbia perché, come Basaglia ribadiva, la donna non era una bestia ma un essere umano di cui non bisognava avere paura. La Puccini è uscita e appena fuori si è strappata i vestiti di dosso. Abbiamo visto anche delle immagini del manicomio “Santa Maria della Pietà” di Roma e le stanze in cui veniva eseguito l’elettroshock.

A Regina ciò che più l’ha fatta riflettere è stato come Basaglia fosse riuscito a resistere, durante il suo lavoro negli ospedali psichiatrici, a contenere il malessere dei tanti pazienti che erano stati sottoposti ad elettroshock e ad altri mezzi dolorosi di contenzione. Dagli occhi spenti dei pazienti traspariva solo sofferenza, come personaggi chiusi all’interno di un carillon. Basaglia forse è stato il primo tra tanti psichiatri ad essere impressionato dalla totale disparità tra una vita vissuta dentro al manicomio e una fuori da lì.

Andrea ed Omar sono sollevati perché, grazie alla Legge 180, sono stati smantellati quei luoghi di “cura" dove loro non sarebbero stati in grado di (soprav)vivere. Prima del cambiamento, i pazienti  vivevano una vita di rassegnazione, coloro che provavano a ribellarsi venivano sedati con i farmaci e trattati con elettroshock contro la loro volontà. Ci è parso immediato paragonare il nostro stile di vita alle condizioni di vita nei manicomi e pensiamo che fosse assolutamente necessario un cambiamento. A Marco sono rimaste impresse nella mente le modalità di “cura” allora in uso, in particolare ricorda, dai filmati visti, l’attrezzo con cui veniva praticato l’elettroshock: gli ricorda dei denti affilati sulla testa dei pazienti. È rimasto turbato, inoltre, quando è venuto a conoscenza del fatto che i pazienti venivano anche rinchiusi in gabbie o stanze  per un periodo indeterminato, pazienti che erano soprattutto persone, con un animo buono. Basaglia aprendo le porte dava dignità alla persona ed era interessato alla tutela della loro salute.

Basaglia ha lottato contro l’istituzionalizzazione: i manicomi sono stati chiusi e al loro posto sono stati aperti i servizi territoriali come Centri Diurni e Centri di Salute Mentale.Un nostro compagno, guardando alcune foto storiche di Basaglia, lo ha “invidiato” perché è apparso come una persona sorridente e contento della propria vita, nonostante la dura battaglia che ha portato avanti.

Andrea, Giuseppe, Marco, Mauro, Omar, Regina, Riccardo

   

 

Lo ricordo ancora. Non so come avvenne ma all’inizio degli anni 70, studente liceale a Napoli, mi ritrovai a giocare una partita di calcio nel campo del ‘Leonardo Bianchi’, allora Manicomio della città. Ne avevo sentito parlare.  Qualche volta accadeva che mi venisse indicata una persona che aveva un parente ricoverato lì, in quel posto che nell’Ottocento, quando non era necessario usare ipocrite perifrasi, si chiamava Real Casa dei Matti, in quell’angolo di città che per noi  non era Terra, ma forse Marte o la Luna. Del resto alieni o alienati per me erano la stessa cosa … Di quella partita non mi viene in mente il risultato e, a pensarci bene, neanche chi fossero gli avversari; sono certo, però, che lì  io  non ci sono più tornato. Ma ricordo benissimo la mia curiosità  nel vedere tutti quegli uomini un po’ piccoli, ecco omini, che si muovevano in modo goffo: uno agitava una mano, un altro torceva il collo, c’era quello che sembrava ridere ma, a ben guardare, era solo una smorfia.

 D’altra parte, nessuno di  noi aveva mai sentito parlare di discinesia tardiva da farmaco.

 Con le dita intrecciate alle maglie della rete di recinzione gli omini guardavano la partita. Erano in molti, ma ognuno per stava per conto proprio:   commentavano, ma non condividevano; ciascuno  aveva scelto tra noi un occasionale ed improbabile beniamino, idolo sportivo di un giorno qualsiasi di autunno. Eravamo contenti noi: c’era un pubblico tutto  per noi. Non accadeva mai. Chi mai sarebbe stato così stolto da perdere tempo per noi? Loro no, loro di tempo ne avevano tanto. E poi  questi tifosi un po’ strani avevano il grande merito di andare, con andatura scomposta, a raccogliere, al posto nostro,  i tanti palloni che i nostri piedi, decisamente poco talentuosi,  scagliavano,  maldestramente,  ben fuori dal perimetro di gioco.

Sorridevamo a loro e loro ci rispondevano con il sorriso deturpato da denti, ma spesso neanche c’erano i denti, che nessuno aveva mai inteso curare. Comunicavano con noi, con parole e gesti  che noi  non comprendevamo o, per meglio dire, non provavamo neppure a comprendere. Ma poi  a comprendere cosa?. Stavamo tutti a nostro agio, calciatori e spettatori, infermieri e inservienti. Si stava bene. Un pregio quel Manicomio ce lo aveva:  i rumori della caotica Napoli arrivavano smorzati, tutto sembrava fermo, placido, a parte la leggera brezza che, nascendo dal mare del mitico Miglio d’oro, salendo su per la grande e perduta bellezza di Poggioreale,  arrivava a Capodichino, sollevando  una piccolo turbine di polvere dall’ arido campo di gioco. Allo studente liceale, veniva in mente il tranquillo Titiro di Virgilio che, al riposo sotto un faggio , viveva con distacco gli affanni di  Melibeo,  allontanato dalle proprie terre.

  “Ma, allora, è così che deve essere..”, mi chiedevo  “Davvero si pensa che per far star bene una persona ‘alienata’ occorra internarla, deportarla, allontanarla, esiliarla dal mondo dei ‘Sani’?”

 Quindici anni dopo, ossia trenta anni fa,  un postino sudato, irritato e prostrato dal caldo di agosto, mi recapita un telegramma. “Ceccano!”: ecco la destinazione che leggo, a voce alta, nella comunicazione di incarico temporaneo di assistente medico.

“Ceccano, e dov’è?” mi chiedo.

 Qualcuno mi dice “ Lì c’è il Manicomio!; Si,  il Manicomio; forse ti tocca andare proprio lì!”. Ricordo che risposi  che c’ero stato una sola volta in vita mia in un manicomio e solo per giocare a pallone! “ E poi perché dovrebbero chiamare me”, ribatto “non sono mica uno psichiatra… Vedrai: mi destinano da qualche altra parte” .

Non mi hanno   destinato da alcuna  altra parte. E sono diventato psichiatra. E così attraversai  per la seconda volta il portone di ingresso di un Manicomio. Ma in quei quindici anni  erano accadute tante cose in Italia: si poteva divorziare, era lecito rinunciare ad un figlio concepito;  si combatteva un terrorismo cieco e codardo che aveva mietuto vittime illustri e distrutto i sogni di gente comune colpevole solo  salire su un treno condannato o  sull’ aereo sbagliato. Si vinceva e poi si perdeva un Mondiale di calcio.

 Ma era avvenuto pure che, nel 1978, un uomo rivoluzionario  riuscisse a convincere gli Italiani che il manicomio era ingiusto e disumano . E  inutile.

 E cosi fu che quel portone che varcavo   non era il più Manicomio ma  Residuo dell’Ospedale psichiatrico. Proprio così, “residuo”.

Entrato nell’ampio e chiassoso atrio, ne trassi una  impressione strana: fu come se, insieme al liceale di Napoli fossero cresciuti pure gli omini che un  tempo erano aggrappati alla rete di recinzione. Erano in molti lì fuori. Simili nell’aspetto e nei movimenti a quelli di Napoli.  Ma era tutto diverso: c’era quello che mangiava un panino, un altro parlava della Roma, uno, senz’altro più sfrontato, che provava a fare i complimenti ad una dipendente, un altro, ancora, molto compìto,  che provava a dirmi qualcosa che non riuscivo a cogliere. Seppi, poi, che era chiamato il “mutarello”. Io non lo capivo proprio ma i suoi compagni del lungo viaggio nel centro del dolore, iniziato spesso nella prima infanzia, lo capivano benissimo. E gli rispondevano. Sentivo voci e sentivo rumori: c’era la vita. Com’era lontana la percezione del tempo immobile dell’ antica Real Casa..

Avevo incontrato gli Uomini e le Donne del Manicomio.

Oddio, era sempre difficile scorgere un dente sano. Deve esserci stata una   direttiva di vecchia data  dei Manicomi che  dettava così: Disposizione di Servizio: I denti sono superflui e non vanno curati!

Quello fu il primo giorno di trent’anni di giorni. Ma restava una domanda: perché, ai miei occhi, gli omini di Napoli erano diventati gli Uomini di Ceccano? E perché  le Donne di Ceccano, perché a Ceccano vidi che c’erano anche delle donne che al “Leonardo Bianchi” sembravano non  esistere, erano diventate le donne di Ceccano? Perché così uguali e così diversi dopo quindici anni? Può una legge che ti dice che Antonio o Concetta, un tempo internati del Manicomio e ora ospiti di un Residuo e abili ad uscire, se solo trovano chi li accolga, farti cambiare così tanto la percezione della realtà?

Ho sempre avuto una risposta molto banale e mi accontento di questa: è bastato affermare  che questi ex omini ed ora uomini non erano poi così lontani dalla Terra, che c’era posto anche per loro, anche se dentro al Residuo… bastava codificare che era lecito che potessero anche stare fuori dal Residuo. E’ bastato dirlo a loro ma, ancora di più convincere noi, e loro hanno immediatamente respirato la libertà, la partecipazione, l’integrazione. Perché non c’è nulla, neanche la malattia mentale più grave, che possa soffocare la naturale predisposizione di tutti gli essere viventi del nostro mondo a comunicare, interagire, sentirsi parte integrante di un disegno immenso e armonioso.

E noi, all’improvviso, li abbiamo visti: Uomini e Donne tra uomini e donne. Erano tornati.

Poco male se per un lungo tempo si era stabilito che fosse meglio per loro, e per noi, se stavano tutti insieme, dietro un altissimo muro che arrivava al cielo, liberi da ogni preoccupazione e da ogni concetto di dignità umana. Anzi, meglio ancora se liberi anche dai loro pensieri. Dai loro ricordi. Dai loro abiti.

A loro avrebbero pensato i ‘Sani’. Avrebbero avuto da mangiare, un tetto  e anche un letto. Anche un abito; poco male se identico per tutti.

Ormai quasi tutti quegli Uomini e quelle Donne di Napoli e di Ceccano, ci hanno lasciato. Con garbo, senza clamori e senza arrecare fastidi. Non hanno reclamato risarcimenti, non hanno preteso scuse. I ‘Sani’, spesso, non hanno  neanche avuto il tempo di  scrivere un nome e una data sulla loro tomba.

 E a me, liceale di un tempo ormai troppo lontano, piace credere che adesso stiano godendo di quell’antica promessa fatto da quell’uomo che disse  “…gli ultimi saranno i primi”.

E loro erano davvero gli ultimi.

R Certosino

 

 
   

   

RIFLESSIONI SULLA 180, 20 E 40 ANNI DOPO

L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere - Giada Zampano - 2018

Internazionale su Basaglia

   
http://www.grazianopanfili.com/Rems https://mattipersempre.it/  
     

Conferenze brasiliane di Franco Basaglia

 “Vede, la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent'anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un'azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare”.  Franco Basaglia, Rio de Janeiro, 28 giugno 1979

   

IL RAPPORTO FRA RAZIONALE ED IRRAZIONALE NELLA NOSTRA SOCIETÀ

 “Io ho detto che non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società accetta la follia come parte della ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragion d'essere nel fatto che fa diventare razionale l'irrazionale. Quando uno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Il problema è come disfare questo nodo, come andare al di là della “follia istituzionale” e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita.”

COME NASCE LA DITTATURA DELLA RAGIONE?

 “È importante osservare che i manicomi sono nati in un momento in cui il mondo cambiava e nasceva un nuovo umanesimo. Le scienze dell'uomo nascono infatti dopo la Rivoluzione francese, quando si affermano sia la ragione che la fraternità. Questi diventano gli emblemi del nuovo mondo. Una società per essere civile deve essere razionale. Ecco perché da quel momento tutto ciò che è irrazionale deve essere controllato dalla ragione. È così che nasce l'istituzione razionale del manicomio che racchiude l'irrazionalità. Una persona folle diventa nuovamente razionale nel momento in cui è internato in manicomio.”

DALLO STIGMA ALLA POVERTÀ, DALLA POVERTÀ ALLO STIGMA

“Quando la psichiatria entra in manicomio incontra una società ben definita: da un lato i “folli poveri”, dall'altro i ricchi, la classe dominante che dispone dei mezzi per il trattametno dei poveri folli. Sotto questa angolatura, come possiamo pensare che la psichiatria possa essere liberatrice? Lo psichiatra sarà sempre in una posizione di privilegio, di dominio nei confronti del malato. Anche questo fa parte di ciò che la storia della psichiatria fa capire. Essa è storia dei potenti, dei medici, e mai dei malati. Da questo punto di vista la psichiatria è fin dalla nascita una tecnica altamente repressiva, che lo Stato ha sempre usato per opprimere i malati poveri, cioè la classe lavoratrice che non produce.”

CHI NON ACCETTA IL RAZIONALE RICEVE LO STIGMA

“Penso che ciascuno di noi può essere stigmatizzato, criminalizzato quando non è più utile all'organizzazione sociale, che può eliminarti anche col pregiudizio e il preconcetto. Per esempio, se voglio eliminare una persona che mi è antipatica posso dire che è stupida: è il metodo più tranquillo di eliminare qualcuno. Nella misura in cui convinco gli altri che questa persona è stupida, essa sarà considerata davvero stupida.”

LA PSICHIATRIA COME STRUMENTO DI CONTROLLO DEL POVERO FOLLE

 “Dopo Pinel, se esaminiamo la storia della psichiatria, vediamo emergere nomi di grandi psichiatri; ma del malato di mente esistono solo denominazioni, etichette: isteria, schizofrenia, mania, astenia ecc. La storia della psichiatria è storia degli psichiatri, non storia dei malati. Fin dal Settecento questo tipo di relazione ha legato indissolubilmente il malato al suo medico, creando una condizione di dipendenza dalla quale il malato non è mai riuscito a liberarsi. Direi che la psichiatria non è mai stata altro che una brutta copia della medicina, una copia nella quale il malato appare sempre totalmente dipendente dal medico che lo cura: importante è che il malato non sia mai in una posizione critica nei confronti del medico.”

ISTITUZIONALIZZAZIONE: LA SOGGETTIVITÀ DEL “FOLLE” VIENE CANCELLATA

“Se noi seguiamo il modo in cui viene ricoverata una persona in manicomio, e la rivediamo dopo un anno, noi possiamo cogliere bene “il vortice degli inganni”, tutto l'iter attraverso il quale la persona viene ridotta a cosa. La persona che viene internata protesta per il suo internamento e la prima cosa che viene fatta è un'iniezione, se non viene legata con la camicia di forza. Comincia così la “carriera morale del malato di mente” che a un certo punto capisce che è meglio adattarsi agli ordini dell'istituzione, non ribellarsi. Si avvia così quel processo chiamato istituzionalizzazione: la persona , il folle incarcerato dalla e nella malattia viene incarcerato nell'istituzione, e in questo momento la persona sofferente diventa un oggetto dell'istituzione, docile come una bestia selvaggia addomesticata.”

NEL MANICOMIO L'UNICA TERAPIA È LA DIPENDENZA

 “Nel manicomio la condizione di potere nel medico e di dipendenza del malato non dà alcuna possibilità di mettere in atto una terapia. È per questo che noi proponiamo l'eliminazione di queste istituzioni che si chiamano manicomi. Perché nel manicomio non si può praticare alcuna terapia data la relazione di potere del medico sul malato. La terapia ha senso quando c'è reciprocità fra malato e medico. La terapia analitica come mezzo di gestione è molto significativa in questo aspetto. All'interno della terapia analitica la cosa più importante è il denaro, cioè il fatto che il paziente deve pagare. Questa situazione – e non sto dicendo che sia giusta o sbagliata – pone medico e paziente in una posizione di uguaglianza: il medico ha degli obblighi per via del denaro che riceve, e il paziente ha dei diritti per via del denaro che gli dà. Questa è una situazione di reciprocità perché tutti e due sono impegnati nel trattamento terapeutico. Quando parliamo di miseria, quando affrontiamo la follia in mezzo alla miseria, la persona che sta male deve poter capire che il medico è lì per darle una mano, per aiutarla, che non è in una situazione di potere, ma di reciprocità, e quindi di “terapeuticità”. Ma nel manicomio non può esistere terapia perché esiste solo una relazione di potere. Invece noi dobbiamo andare alla ricerca di una situazione di complicità e di reciprocità verso e con il malato. È solo così che possiamo parlare di terapia. In caso contrario possiamo parlare solo di dipendenza e di schiavitù.”

LA PSICHIATRIA: UNA PRASSI SENZA TEORIA, UN MERO ESERCIZIO DI POTERE

 “Ho parlato in generale della relazione tra potere e sapere. Il campo della psichiatria è forse l'esempio più semplice per capire questa contraddizione. Possiamo dire che dal punto di vista del sapere lo psichiatra è il medico più ignorante: non sa niente ma compensa questa carenza con il potere. Nel manicomio questo è evidente. Ci sono poi i vari psicoanalisti, psicoterapeuti, psichiatri ecc. Ognuno tenta di dare una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se noi parlassimo con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno ciò che è la follia, e ciascuno ammetterà anche che la relazione con il paziente è una relazione di potere.”

LA NUOVA PSICHIATRIA DEMOCRATICA: DALLA MALATTIA  AL MALATO 

“Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà dell'internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altr ecose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità.”

IL COMPITO DEL TECNICO: FAVORIRE LA PRESA DI COSCIENZA DELL'OPPRESSO

“Il problema è che le persone devono prendere coscienza politica dell'alienazione e della violenza in cui vivono. Per esempio, se in una famiglia vi è un bambino handicappato, i genitori che hanno bisogno di lavorare hanno due possibilità: o uno dei due non va a lavorare e si prende cura del bambino, o lo mettono in istituto. Il nostro dovere di medici è spiegare ai genitori che non devono mettere il bambino in istituto perché là diventerà ancora più handicappato. È evidente che così si stimola la coscienza politica della famiglia, che può pretendere, per esempio, la creazione di asili dove il bambino possa andare quando i genitori lavorano. Si tratta di un diritto del cittadino, e noi come tecnici dobbiamo promuovere questa coscienza dei diritti.”

IL PASSAGGIO DAL MANICOMIO AL MONDO DEI “NORMALI”

 “Quando un internato esce e ritorna alla vita sociale, si crea una nuova contraddizione che tende a riportarlo nuovamente in manicomio. In questo momento è importante che possa nascere nella comunità una presa di coscienza, ed è anche importante che io come tecnico nuovo non stia dalla parte della classe dirigente ma sia direttamente legato alla classe che soffre queste contraddizioni. È importante che io entri direttamente nel tessuto sociale per creare i presupposti di un consenso finalizzato, non tanto a una maggiore tolleranza, quanto a una presa di responsabilità, a una presa in carico da parte della comunità di problemi che le appartengono.”

ABBIAMO VINTO UNA BATTAGLIA MA NON LA GUERRA

 “Dopo vent'anni di lotta, e dopo aver convinto non tanto il governo quanto le organizzazioni politiche e sociali della necessità di un cambiamento nell'assistenza, abbiamo ottenuto una legge che dobbiamo difendere giorno per giorno perché, anche se si tratta di una legge dello Stato, la maggioranza non vorrebbe applicarla, gli psichiatri tradizionali non vorrrebbero applicarla perché segna la perdita del loro potere. Di fatto questa legge è la perdita di potere degli psichiatri tradizionali ma insieme la messa in opera di un nuovo sapere. Naturalmente noi dobbiamo essere molto vigili perché questa minoranza, una volta catturata, può diventare la nuova maggioranza riciclata.”

«Se, infatti, il malato è l'unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una comunità che vuol essere terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà - la malattia e la stigmatizzazione - per poter ricostruire gradualmente il volto del malato così come doveva essere prima che la società, con i suoi numerosi atti di esclusione, e l'istituto da lei inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa.

Tuttavia, soltanto tenendo presente l'estrema ambiguità della situazione che stiamo vivendo, si riuscirà ad evitare l'edificazione di una nuova ideologia: quella dell'ospedale aperto, delle comunità terapeutiche, proposte come soluzione al problema del malato mentale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell' "intera comunità". Si tende, infatti, verso una nuova psichiatria basata sull'approccio psicoterapico con il malato, e si è invece ancora invischiati in una realtà psichiatrica legata ai vecchi schemi positivisti; ci si orienta verso la costituzione di nuclei ospedalieri che tengano conto del gioco delle dinamiche interne ai gruppi e dell'apporto delle relazioni interpersonali, non avendo altri modelli cui riferirsi che quelli di un sistema autoritario e gerarchico; ci si sforza di trasformare l'Ospedale Psichiatrico in un centro retto - per quanto possibile - comunitariamente si è invece nostro malgrado inseriti in una realtà sociale ad alto livello repressivo e competitivo; si tende ad affrontare comunitariamente il malato mentale per farlo uscire dallo stato di regressione in cui è stato indotto, e si rischia di provocare in lui un nuovo tipo di disadattamento al clima istituzionalizzato della società».

Il "malato mentale" che incontriamo negli asili psichiatrici è, infatti, la realtà che contesta la psichiatria così come il bambino che muore di fame contesta la "letteratura". Ma se è solo l’emozione che io provo davanti al malato che mi spinge ad agire nei suoi confronti, non è possibile riempire il vuoto che lo separa dalla scienza che dovrebbe occuparsi di lui. Quindi, o la parola conserva la sua ambiguità di essere "parola" che contemporaneamente modifica ciò che disegna (e allora la psichiatria deve essere una scienza che agisce direttamente sul malato come ciò che il discorso psichiatrico deve designare per modificare); o si prende un solo polo di ambiguità e si fa, da un lato, della "letteratura" (discutendo sulle classificazioni e sottoclassificazioni delle sindromi); e dall’altro una analisi emotiva del "malato" e della deprecabile situazione in cui si trova. Rifiutando invece e la sterile "letteratura" psichiatrica e lo sterile rapporto puramente umanitario, si sente l’esigenza di una psichiatria che voglia costantemente trovare la sua verifica nella realtà e che nella realtà trovi gli elementi di contestazione per contestare sé stessa

Iniziative svolte