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Fotostoria ,Programma e interventi,
Bollettino
regionale,
Progetto,
Riassunto delle iniziative,
Rendiconto e
spese generali, COnto
verde e Conto
viola |
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INTERVENTI REGIONALI PER LO SVILUPPO DEL CINEMA
E DELL’AUDIOVISIVO (Legge regionale 13
Aprile 2012, n.2 e s.m.i.). MODALITA’ E
CRITERI PER LA CONCESSIONE DI CONTRIBUTI PER LE INIZIATIVE PER LA PROMOZIONE
DELLA CULTURA CINEMATOGRAFICA E AUDIOVISIVA
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Riassunto delle iniziative,
Indice,
Consuntivo e
elenco pagamenti,
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CHI
CI SALVA DALL'INTEGRAZIONE?
ECOLOGIA DELLA SALUTE
MENTALE A 40 ANNI DALLA LEGGE 'BASAGLIA' |
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L’associazione Oltre l’Occidente nella ricorrenza nel 2018 del 40°
anniversario della legge Basaglia, propone una serie di iniziative su tutto
il territorio provinciale. Il titolo della iniziativa è “CHI CI SALVA
DALL'INTEGRAZIONE? ECOLOGIA DELLA SALUTE MENTALE 40 ANNI DI LEGGE BASAGLIA”,
e nasce dalla collaborazione decennale della scrivente Associazione con il
centro diurno di Frosinone Orizzonti Aperti.
Il progetto
si compone di una serie di proiezioni e un corrispondente confronto sui temi
quali salute mentale, integrazione, diversità, accoglienza, cittadinanza,
muri, lavoro… durante tutto il 2018. A questo si stanno aggiungendo
proposte di altre attività legate al recupero della memoria del territorio.
Tale
progetto è stato selezionato dalla Regione Lazio, Direzione Cultura e
Politiche Giovanili, nell’ambito delle “Iniziative per la promozione e la
valorizzazione del patrimonio audiovisivo per l'anno 2018”.
Si chiede
di aderire al progetto che verrà presentato il 4 maggio a Ceccano nella
cappella, oggi sala conferenze, dell’ex manicomio di Ceccano dalle 17.30.
Contestualmente alla presentazione si chiederà agli interessati di
collaborare e proporre iniziative e contribuire con un lavoro sulla memoria
dei lunghi cento anni del manicomio di Ceccano ad una riflessione sui
servizi oggi che operano sul territorio.
Certi
dell’interesse, ci si augura di incontrarci a Ceccano il 4 maggio p.v.
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IL PROGETTO
L'associazione Oltre l'Occidente
propone alcuni momenti di riflessione e iniziative che prevedono l’uso
del cinema e degli audiovisivi come momento di prevenzione del disagio
sociale e della marginalizzazione sul problema della salute mentale a 40
anni dalla legge 180, calando tale riflessione nella realtà territoriale: la
provincia di Frosinone
L'Associazione lavora fin dalla sua
nascita anche nel campo della salute mentale con intensa collaborazione con
il centro diurno Orizzonti Aperti afferente al DSMPD della ASL di Frosinone.
La collaborazione nacque proprio con una serie di cineforum che venivano
organizzati, a seconda degli anni, nella sede del centro diurno o nella
sede dell’associazione. A ciò hanno fatto seguito dibattiti, incontri,
pubblicazioni nonché progetti strutturati per persone con disagi psichici
per reinserimenti lavorativi presso i locali dell’associazione a sostegno
del progetto biblioteca.
Analisi del contesto :
La salute mentale e il benessere sono
al centro della qualità di vita delle persone e della società. La stessa UE
ha messo in evidenza l'importanza della salute mentale nella realizzazione
di misure pratiche in questi ambiti. La discriminazione e l'esclusione
sociale delle persone con problemi mentali e delle loro famiglie sono la
conseguenza sia del disordine mentale che dello stigma, dell'allontanamento
e dell'esclusione dalla società.
E’ importante organizzare campagne di
informazione pubblica e di sensibilizzazione attraverso i media, Internet e
le istituzioni che incrociano i bisogni dei cittadini al fine di promuovere
la salute mentale, di aumentare le conoscenze, di destigmatizzare i disturbi
mentali e favorire la ricerca della migliore e più efficace risposta. Tutte
queste azioni sono a sostegno e favoriscono il protagonismo degli utenti.
I media svolgono un ruolo cruciale
nell’influenzare la percezione dell’omologante concetto di normalità, che
toglie spazio alla rappresentazione individuale di sé e della propria
irriducibile diversità. Sarebbe auspicabile che i soggetti destinatari di
stigma o di esclusione si riappropriassero della conoscenza di tali
strumenti e ne facessero un uso di promozione dei diritti.
A 40 anni di distanza dalla legge 180
si vorrebbe affrontare, così come Basaglia aveva avvertito, il problema del
disagio psichico nella società, evidenziandone il suo aggancio appunto
sociale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente
contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere con
la conquista della libertà dell' "intera comunità".
«La chiusura del manicomio è stato il
più grande atto di ecologia della mente nel nostro secolo, reso possibile
da precisi fattori politici, psicoanalitici, psicofarmacologici, perché ha
reso reversibili processi che sembravano irreversibili. Incomprensibilità,
irrecuperabilità, incurabilità della follia si stanno trasformando in
possibile comprensione, recupero, guarigione» (Paolo Tranchina).
Perché
cinema e salute mentale? Il cinema consente allo spettatore di
immedesimarsi, emozionarsi, esprimersi: cinema come conoscenza di sé e
dell’altro da sé. Permette di prendersi cura dei legami sociali. Attraverso
le immagini e le emozioni della storia messa in scena, si ampliano le
proprie prospettive e si conoscono storie di vita diverse: il cinema è uno
spazio di confronto e di crescita, è condivisione di esperienze emotive e
cognitive, è elemento di aggregazione; consente di comprendere realtà
apparentemente distanti dalla propria. La partecipazione sociale ad un
contesto culturale, come quello di una rassegna cinematografica, favorisce
lo sviluppo del sentimento di appartenenza ed identità sociale ovvero di
cittadinanza.
Ma non solo
fruizione… Accanto alla proiezione dei film, ci sarà contestualmente la
nascita di una redazione nel centro diurno per gestire un blog già nato, ‘unlocked’,
recuperando non solo la scrittura ma anche materiale audio/video a seguito
di un corso di preparazione alle riprese e al montaggio. Tale redazione
organizzerà e supporterà tecnicamente i dibattiti conseguenti ai film sui
temi della salute mentale. Verranno aperti spazi sui social network che
consentiranno l’autorappresentazione e la capacità di cogliere attraverso
uno strumento, quale quello degli audiovisivi, aspetti non facilmente
individuabili senza la necessaria sensibilità.
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Questionario per studenti (in pdf),
Materiale per insegnanti |
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LA LEGGE
BASAGLIA: UNA CONQUISTA DI CIVILTÀ CHE RISCHIAMO DI PERDERE di
Daniele Riggi

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Ricorre il
quarantesimo anniversario della legge n. 180/1978, nota soprattutto come
“Legge Basaglia”, che ha riformato l'organizzazione dell'assistenza
psichiatrica ospedaliera e territoriale nel nostro Paese, imponendo la
chiusura dei manicomi. Il grande ispiratore della legge fu lo psichiatra
veneziano Franco Basaglia che nel corso degli anni Sessanta e Settanta,
assieme ad altri psichiatri italiani appartenenti al movimento
Psichiatria Democratica, si batté per una concezione moderna della
salute mentale. Credo che l'essenza del pensiero basagliano possa essere
riassunta dal seguente passaggio, che si trova nell'opera Che cos'è
la psichiatria?: «Ogni società, le cui strutture siano basate
soltanto su una discriminazione economica, culturale e su un sistema
competitivo, crea in sé delle aree di compenso che servono come valvole
di scarico all'intero sistema. Il malato mentale ha assolto questo
compito per molto tempo, anche perché era un "escluso" che non poteva
conoscere da sé i limiti della sua malattia e quindi ha creduto - come
la società e la psichiatria gli hanno fatto credere - che ogni suo atto
di contestazione alla realtà in cui è costretto a vivere, sia un atto
malato, espressione della sindrome di cui soffre». Il percorso
rivoluzionario di Basaglia cominciò negli anni Sessanta all'interno
dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, dove fu avviata la prima
esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati di
mente. Lo psichiatra veneziano decise di sostituire i metodi repressivi
della vecchia psichiatria, come ad esempio la contenzione fisica e le
terapie elettroconvulsivanti, con nuove modalità di terapia che, per la
prima volta, mettevano al centro non la malattia ma la persona, con la
sua dignità, i suoi bisogni, i suoi desideri. Nel corso degli anni le
critiche rivolte alla legge 180 sono state numerose, la più ricorrente è
senza dubbio quella che accusa la legge di trascurare la pericolosità
dei malati. In realtà oggi l'unica certezza che abbiamo è che la legge
Basaglia, a quasi quarant'anni dalla sua introduzione non è mai stata
applicata del tutto. Nella maggioranza delle Regioni italiane, che sono
responsabili dell'attuazione dei provvedimenti in materia di salute
mentale, le amministrazioni, come accade spesso nel nostro Paese, hanno
visto la legge solamente come un'occasione per risparmiare soldi e
risorse. Il risultato è che oggi i servizi territoriali sono nella
maggior parte dei casi carenti e, inoltre, sono distribuiti in maniera
disomogenea sul territorio; solo in poche regioni i principi della legge
180 sono stati tradotti in buone pratiche. In sostanza, il nostro Paese
è stato il primo, e per adesso l'unico, ad abolire i manicomi per
trasformare l'assistenza psichiatrica in un servizio territoriale vicino
alle esigenze del malato, però non è stato in grado di portare a
compimento questa straordinaria rivoluzione. Nella società di oggi, dove
sono considerate più importanti le istanze di sicurezza che la cura del
prossimo, la riapertura dei manicomi, purtroppo, sta diventando un
rischio concreto. L'unico modo per scongiurare questo rischio nel nostro
Paese è destinare più risorse alla salute mentale. In Italia impieghiamo
solamente il 3% del fondo sanitario nazionale nella salute mentale,
mentre, invece, paesi come la Francia e il Regno Unito investono il 12%.
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Ricordi
di Patrizia Monti
18 maggio 1978, avevo dovuto chiedere il nulla
osta all’Università di Roma per poter effettuare il tirocinio pre-laurea
a Napoli, dove risiedevo. Erano le 8.30 e stavo percorrendo il viale
d’accesso al Leonardo Bianchi, calata Capodichino, l’ospedale
psichiatrico di Napoli, ‘o manicomio’. Avevo ancora nelle orecchie la
voce della donna, che sull’autobus mi aveva indicato la fermata che mi
diceva: “signurì ma si sicura c’a ce vuò trasì là ddint”?
Che ci sarà qua dentro? Intanto un bel parco e,
al di là dell’alto muro di tufo, la città sempre più lontana, e
pensavo: “incredibile non sento più i rumori e le voci della strada”.
Ero stata assegnata all’osservazione donne, il reparto dove si
ricoveravano le donne prima dell’assegnazione ai reparti di competenza
dopo la valutazione degli psichiatri. Ma quella mattina c’era aria di
smantellamento un incredibile viavai di persone, il sole attraverso le
foglie fitte degli alberi creava effetti luce sulle vetrate e nei lunghi
corridoi. Il gran vociare mi risuonava come foriero di novità anche lì
in quel luogo sempre uguale a se stesso. Certamente non si era mai visto
tutto quel movimento di camici, di carrelli, di suore di pazienti
vestiti alla meglio che giravano come turisti spaesati dall’estraneità
dei luoghi e dei paesaggi. Cinque giorni dall’approvazione della legge
Basaglia ed io iniziavo il mio tirocinio in manicomio: chissà forse
avrei lavorato alla chiusura di quel luogo. Seguivo le indicazioni della
segnaletica il reparto osservazione donne era in fondo all’ampio
corridoio che stavo percorrendo. Cancello, porta vetro, cancello.
Citofonai e restai in attesa. Una suora venne ad aprirmi poi iniziò il
rituale di apertura e chiusura che si ripeteva ogni volta che dovevo
entrare e uscire, compreso l’attimo in cui eravamo entrambe chiuse fra
le due porte. Il primo giorno non vidi niente del reparto e per molti
giorni a seguire finché il primario non diede disposizione di farmi
conoscere i pazienti. Intanto avevo imparato la storia di quel luogo
formato da una costruzione centrale e 53 palazzine. Il primo direttore
fu Leonardo Bianchi a cui fu poi intitolato; neuropsichiatra liberale di
formazione lombrosiana e innovatore per i suoi tempi: eliminò la camicia
di forza e introdusse l’elettroshock. E ora dopo 69 nove anni bisognava
avviare la chiusura della “città dei folli” che si concluderà nel 2002.
In quegli anni, la testimonianza, in Inghilterra di
Cooper e Laing, in Francia di Foucault, Deleuze, Guattari, e Castel, in
America di Goffman, aveva permesso che anche in Italia filosofi,
sociologi, politici, poeti e storici parlassero di psichiatria. Un
fermento culturale che faticava a superare il “muro di tufo”. Stavo
leggendo L’Io diviso di Laing e Asylum di Goffman e ogni mattina ero
chiusa in un reparto del manicomio per fare la mia esperienza diretta
della malattia mentale e della sua cura che era stata definita non cura.
Il primo reparto che aprì le porte fu quello diretto dal Dr. Guelfo
Margherita, ricordo che era indicato dai colleghi del reparto in cui
andavo io, come il sessantottino, che equivaleva a rivoluzionario. Fu
anche arrestato con l’accusa incredibile di segregare i malati come in
un lager e scagionato dopo quattro giorni di reclusione.
Era molto faticoso cogliere la coerenza fra quello che si studiava,
la legge, il contesto politico e culturale, l’opinione pubblica e
l’esperienza quotidiana di quella vera e propria “segregazione”.
In realtà anch’io non ero libera di muovermi autonomamente, e di pensare
diversamente. Ricordo una mattina in cui arrivai insieme al carrello
della lavanderia che riportava la biancheria. Entrai quindi senza
trovare la suora o l’infermiere inviato da lei, letteralmente a
prelevarmi dall’ingresso e a condurmi ai piani della dirigenza. E così
entrai in reparto. Mi venne incontro una giovane donna molto grossa
rispetto a me, completamente nuda che mi sorrideva, Anna. Iniziammo a
parlare, sedute sulle sponde del letto, in una camerata dove erano
sistemati diversi letti. Era palesemente contenta di raccontare la sua
storia e dopo un po’ cercò qualcosa per coprire il suo corpo. Restammo
così forse per una mezz’ora fino all’arrivo della suora urlante. Mi
accompagnò su e lungo la scala non fece che dirmi che avevo rischiato la
mia incolumità e inoltre mi ero anche intrattenuta con una “lesbica”.
Dal quel giorno il controllo fu ancora più attento, e quando iniziarono
i colloqui con le pazienti comunque non mi fecero parlare con Anna.
Dopo diversi mesi rincontrai Anna. Era stata in visita dal medico. Anche
quella volta ero sola su per la scala ci salutammo poi le mi puntò il
dito ad altezza di viso e guardandomi dritto negli occhi mi sussurrò “tu
hai paura di me”. Quella frase mi rivelò un aspetto dell’esperienza che
stavo facendo: mi stavano addestrando ad aver paura e probabilmente non
se ne rendevano nemmeno conto.
L’intuizione di base del lavoro di Basaglia era che
bisognava modificare l’immagine del malato, non solo all’esterno, ma
anche all’interno del manicomio, dove i ruoli erano funzionali
all’autoconservazione dell’istituzione. E la paura era uno strumento per
costruire un ruolo funzionale all’istituzione.
In quei sei mesi partecipai agli incontri con le
famiglie delle pazienti definite dimissibili sia presso i loro domicili
che nel reparto. Quando la mia esperienza finì nessun progetto era
andato a termine. Ma sono convinta che è stato proprio fra quelle mura
che si sono radicati in me i principi che hanno poi sostenuto le mie
scelte formative e in seguito il mio lavoro quotidiano.
Dopo cinque anni la Regione Campania istituì i
servizi territoriali e il primo ottobre 1984 iniziò la mia avventura
lavorativa contemporaneamente ad altri 101 psicologi e 56 sociologi
destinati ai 60 servizi territoriali.
I centri di salute mentale e i centri diurni
rientrano in quella rete di servizi territoriali nati dalla riforma
dell’assistenza psichiatrica promossa dal lavoro di Franco Basaglia che
ha ripristinato canali comunicativi che sembravano interrotti per
sempre.
Il ripristino di un dialogo reale fra i pazienti, i
medici e gli infermieri ha permesso al quotidiano di trasformarsi
da “pratica routinaria” in “esperienza clinica” da
narrare, e di “praticare una comunicazione ricca di conseguenze”.
Il ripristino della “comunicazione” aveva spostato nella
collettività il rapporto problematico con la follia, reso impossibile,
fino ad allora, dall’innalzamento delle mura manicomiali,
fortificazioni non solo materiali, ma anche di comunicazione fra malato
e comunità.
Oggi dopo tanti anni di
esperienza lavorativa posso dire che nel rapporto con i pazienti è più
facile essere catturati da quello che ci disturba e che provoca una
nostra reazione immediata piuttosto che cogliere la paura del vuoto,
la paura di entrare in rapporto proprio come accadeva nei corridoi del
manicomio che rappresentava una fortificazione difensiva dal confronto.
Allora l’avevo intuito,
poi l’ho imparato nella mia pratica lavorativa, che essere degni di
fiducia significa riuscire a costruire una relazione significativa
che ci permette di accogliere il bisogno di affetto e di intimità del
paziente. La costruzione della relazione è un atto comunicativo che si
fonda sulla consapevolezza di sé, del ruolo e della funzione e che ci
consente di muoverci con la sola ‘rapidità’ che il paziente può
sopportare.
Solo così possiamo
‘trasformarci’ in interlocutori che per ottenere risposte non propongono
‘domande’ ma la loro ‘presenza’ e l’intenzione di portare avanti il
proprio lavoro ‘qualunque sia la risposta’.
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In ricordo di Franco Basaglia,
della redazione del blog
UNLOCKED.ORG
del Centro Diurno “Orizzonti Aperti”
Il
giorno 13/04/2018 noi ragazzi della redazione del blog (UNLOCKED.ORG)
del Centro Diurno “Orizzonti Aperti” ci siamo riuniti in vista
dell’imminente anniversario dei 40 anni della Legge 180 (13 Maggio 1978)
per discutere ed approfondire la conoscenza dei passi che, grazie
soprattutto a Franco Basaglia, hanno portato, per nostra fortuna, alla
chiusura dei manicomi. Hanno partecipato all’incontro anche Daniele,
Anna Maria e Nadia, psicologi tirocinanti.
In questa giornata di condivisione,
abbiamo visto alcune scene tratte dal film “C’era una volta la città dei
matti” ma una ci è rimasta particolarmente impressa: l’attrice Vittoria
Puccini che interpretava una paziente del manicomio di Gorizia, istituto
dove Basaglia era da poco diventato direttore, era rinchiusa in una
sorta di gabbia; su richiesta del direttore, è stata fatta aprire la
gabbia perché, come Basaglia ribadiva, la donna non era una bestia ma un
essere umano di cui non bisognava avere paura. La Puccini è uscita e
appena fuori si è strappata i vestiti di dosso. Abbiamo visto anche
delle immagini del manicomio “Santa Maria della Pietà” di Roma e le
stanze in cui veniva eseguito l’elettroshock.
A Regina ciò che più l’ha fatta
riflettere è stato come Basaglia fosse riuscito a resistere, durante il
suo lavoro negli ospedali psichiatrici, a contenere il malessere dei
tanti pazienti che erano stati sottoposti ad elettroshock e ad altri
mezzi dolorosi di contenzione. Dagli occhi spenti dei pazienti
traspariva solo sofferenza, come personaggi chiusi all’interno di un
carillon. Basaglia forse è stato il primo tra tanti psichiatri ad essere
impressionato dalla totale disparità tra una vita vissuta dentro al
manicomio e una fuori da lì.
Andrea ed Omar sono sollevati perché,
grazie alla Legge 180, sono stati smantellati quei luoghi di “cura" dove
loro non sarebbero stati in grado di (soprav)vivere. Prima del
cambiamento, i pazienti vivevano una vita di rassegnazione, coloro che
provavano a ribellarsi venivano sedati con i farmaci e trattati con
elettroshock contro la loro volontà. Ci è parso immediato paragonare il
nostro stile di vita alle condizioni di vita nei manicomi e pensiamo che
fosse assolutamente necessario un cambiamento.
A Marco sono rimaste impresse
nella mente le modalità di “cura” allora in uso, in particolare ricorda,
dai filmati visti, l’attrezzo con cui veniva praticato l’elettroshock:
gli ricorda dei denti affilati sulla testa dei pazienti. È rimasto
turbato, inoltre, quando è venuto a conoscenza del fatto che i pazienti
venivano anche rinchiusi in gabbie o stanze per un periodo
indeterminato, pazienti che erano soprattutto persone, con un animo
buono. Basaglia aprendo le porte dava dignità alla persona ed era
interessato alla tutela della loro salute.
Basaglia ha lottato contro
l’istituzionalizzazione: i manicomi sono stati chiusi e al loro posto
sono stati aperti i servizi territoriali come Centri Diurni e Centri di
Salute Mentale.Un nostro compagno, guardando alcune foto storiche di
Basaglia, lo ha “invidiato” perché è apparso come una persona sorridente
e contento della propria vita, nonostante la dura battaglia che ha
portato avanti.
Andrea, Giuseppe, Marco, Mauro, Omar,
Regina, Riccardo
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Lo ricordo ancora. Non so come avvenne ma
all’inizio degli anni 70, studente liceale a Napoli, mi ritrovai a
giocare una partita di calcio nel campo del ‘Leonardo Bianchi’, allora
Manicomio della città. Ne avevo sentito parlare. Qualche volta accadeva
che mi venisse indicata una persona che aveva un parente ricoverato lì,
in quel posto che nell’Ottocento, quando non era necessario usare
ipocrite perifrasi, si chiamava Real Casa dei Matti, in quell’angolo di
città che per noi non era Terra, ma forse Marte o la Luna. Del resto
alieni o alienati per me erano la stessa cosa … Di quella partita non mi
viene in mente il risultato e, a pensarci bene, neanche chi fossero gli
avversari; sono certo, però, che lì io non ci sono più tornato. Ma
ricordo benissimo la mia curiosità nel vedere tutti quegli uomini un
po’ piccoli, ecco omini, che si muovevano in modo goffo: uno agitava una
mano, un altro torceva il collo, c’era quello che sembrava ridere ma, a
ben guardare, era solo una smorfia.
D’altra parte, nessuno di noi aveva mai
sentito parlare di discinesia tardiva da farmaco.
Con le dita intrecciate alle maglie della
rete di recinzione gli omini guardavano la partita. Erano in molti, ma
ognuno per stava per conto proprio: commentavano, ma non
condividevano; ciascuno aveva scelto tra noi un occasionale ed
improbabile beniamino, idolo sportivo di un giorno qualsiasi di autunno.
Eravamo contenti noi: c’era un pubblico tutto per noi. Non accadeva
mai. Chi mai sarebbe stato così stolto da perdere tempo per noi? Loro
no, loro di tempo ne avevano tanto. E poi questi tifosi un po’ strani
avevano il grande merito di andare, con andatura scomposta, a
raccogliere, al posto nostro, i tanti palloni che i nostri piedi,
decisamente poco talentuosi, scagliavano, maldestramente, ben fuori
dal perimetro di gioco.
Sorridevamo a loro e loro ci rispondevano
con il sorriso deturpato da denti, ma spesso neanche c’erano i denti,
che nessuno aveva mai inteso curare. Comunicavano con noi, con parole e
gesti che noi non comprendevamo o, per meglio dire, non provavamo
neppure a comprendere. Ma poi a comprendere cosa?. Stavamo tutti a
nostro agio, calciatori e spettatori, infermieri e inservienti. Si stava
bene. Un pregio quel Manicomio ce lo aveva: i rumori della caotica
Napoli arrivavano smorzati, tutto sembrava fermo, placido, a parte la
leggera brezza che, nascendo dal mare del mitico Miglio d’oro, salendo
su per la grande e perduta bellezza di Poggioreale, arrivava a
Capodichino, sollevando una piccolo turbine di polvere dall’ arido
campo di gioco. Allo studente liceale, veniva in mente il tranquillo
Titiro di Virgilio che, al riposo sotto un faggio , viveva con distacco
gli affanni di Melibeo, allontanato dalle proprie terre.
“Ma, allora, è così che deve essere..”,
mi
chiedevo “Davvero si pensa che per far star bene una persona
‘alienata’ occorra internarla, deportarla, allontanarla, esiliarla dal
mondo dei ‘Sani’?”
Quindici anni dopo, ossia trenta anni fa,
un postino sudato, irritato e prostrato dal caldo di agosto, mi recapita
un telegramma. “Ceccano!”: ecco la destinazione che leggo, a voce
alta, nella comunicazione di incarico temporaneo di assistente medico.
“Ceccano, e dov’è?” mi chiedo.
Qualcuno mi dice “ Lì c’è il
Manicomio!; Si, il Manicomio; forse ti tocca andare proprio lì!”.
Ricordo che risposi che c’ero stato una sola volta in vita mia in un
manicomio e solo per giocare a pallone! “ E poi perché dovrebbero
chiamare me”, ribatto “non sono mica uno psichiatra… Vedrai: mi
destinano da qualche altra parte” .
Non mi hanno destinato da alcuna altra
parte. E sono diventato psichiatra. E così attraversai per la seconda
volta il portone di ingresso di un Manicomio. Ma in quei quindici anni
erano accadute tante cose in Italia: si poteva divorziare, era lecito
rinunciare ad un figlio concepito; si combatteva un terrorismo cieco e
codardo che aveva mietuto vittime illustri e distrutto i sogni di gente
comune colpevole solo salire su un treno condannato o sull’ aereo
sbagliato. Si vinceva e poi si perdeva un Mondiale di calcio.
Ma era avvenuto pure che, nel 1978, un
uomo rivoluzionario riuscisse a convincere gli Italiani che il
manicomio era ingiusto e disumano . E inutile.
E cosi fu che quel portone che varcavo
non era il più Manicomio ma Residuo dell’Ospedale psichiatrico. Proprio
così, “residuo”.
Entrato nell’ampio e chiassoso atrio, ne
trassi una impressione strana: fu come se, insieme al liceale di Napoli
fossero cresciuti pure gli omini che un tempo erano aggrappati alla
rete di recinzione. Erano in molti lì fuori. Simili nell’aspetto e nei
movimenti a quelli di Napoli. Ma era tutto diverso: c’era quello che
mangiava un panino, un altro parlava della Roma, uno, senz’altro più
sfrontato, che provava a fare i complimenti ad una dipendente, un altro,
ancora, molto compìto, che provava a dirmi qualcosa che non riuscivo a
cogliere. Seppi, poi, che era chiamato il “mutarello”. Io non lo capivo
proprio ma i suoi compagni del lungo viaggio nel centro del dolore,
iniziato spesso nella prima infanzia, lo capivano benissimo. E gli
rispondevano. Sentivo voci e sentivo rumori: c’era la vita. Com’era
lontana la percezione del tempo immobile dell’ antica Real Casa..
Avevo incontrato gli Uomini e le Donne del
Manicomio.
Oddio, era sempre difficile scorgere un
dente sano. Deve esserci stata una direttiva di vecchia data dei
Manicomi che dettava così: Disposizione di Servizio: I denti sono
superflui e non vanno curati!
Quello fu il primo giorno di trent’anni di
giorni. Ma restava una domanda: perché, ai miei occhi, gli omini di
Napoli erano diventati gli Uomini di Ceccano? E perché le Donne di
Ceccano, perché a Ceccano vidi che c’erano anche delle donne che al
“Leonardo Bianchi” sembravano non esistere, erano diventate le donne di
Ceccano? Perché così uguali e così diversi dopo quindici anni? Può una
legge che ti dice che Antonio o Concetta, un tempo internati del
Manicomio e ora ospiti di un Residuo e abili ad uscire, se solo trovano
chi li accolga, farti cambiare così tanto la percezione della realtà?
Ho sempre avuto una risposta molto banale
e mi accontento di questa: è bastato affermare che questi ex omini ed
ora uomini non erano poi così lontani dalla Terra, che c’era posto anche
per loro, anche se dentro al Residuo… bastava codificare che era lecito
che potessero anche stare fuori dal Residuo. E’ bastato dirlo a loro ma,
ancora di più convincere noi, e loro hanno immediatamente respirato la
libertà, la partecipazione, l’integrazione. Perché non c’è nulla,
neanche la malattia mentale più grave, che possa soffocare la naturale
predisposizione di tutti gli essere viventi del nostro mondo a
comunicare, interagire, sentirsi parte integrante di un disegno immenso
e armonioso.
E noi, all’improvviso, li abbiamo visti:
Uomini e Donne tra uomini e donne. Erano tornati.
Poco male se per un lungo tempo si era
stabilito che fosse meglio per loro, e per noi, se stavano tutti
insieme, dietro un altissimo muro che arrivava al cielo, liberi da ogni
preoccupazione e da ogni concetto di dignità umana. Anzi, meglio ancora
se liberi anche dai loro pensieri. Dai loro ricordi. Dai loro abiti.
A loro avrebbero pensato i ‘Sani’.
Avrebbero avuto da mangiare, un tetto e anche un letto. Anche un abito;
poco male se identico per tutti.
Ormai quasi tutti quegli Uomini e quelle
Donne di Napoli e di Ceccano, ci hanno lasciato. Con garbo, senza
clamori e senza arrecare fastidi. Non hanno reclamato risarcimenti, non
hanno preteso scuse. I ‘Sani’, spesso, non hanno neanche avuto il tempo
di scrivere un nome e una data sulla loro tomba.
E a me, liceale di un tempo ormai troppo
lontano, piace credere che adesso stiano godendo di quell’antica
promessa fatto da quell’uomo che disse “…gli ultimi saranno i
primi”.
E loro erano davvero gli ultimi.
R Certosino
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RIFLESSIONI SULLA 180, 20 E 40 ANNI DOPO
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a cura di Anna Grazia, 13 maggio 1998
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L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere - Giada Zampano -
2018 |
Internazionale su Basaglia |
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http://www.grazianopanfili.com/Rems |
https://mattipersempre.it/ |
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Conferenze brasiliane di
Franco Basaglia
“Vede, la cosa importante è
che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici,
vent'anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto.
Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non
lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona
folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il
fatto che un'azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il
punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare”. Franco
Basaglia, Rio de Janeiro, 28 giugno 1979 |
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IL RAPPORTO FRA RAZIONALE ED
IRRAZIONALE NELLA NOSTRA SOCIETÀ
“Io ho detto che non so cosa
sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi
la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che
la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto
la follia. Invece questa società accetta la follia come parte della
ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che si
incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragion d'essere nel fatto
che fa diventare razionale l'irrazionale. Quando uno è folle ed entra in
manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Il problema
è come disfare questo nodo, come andare al di là della “follia
istituzionale” e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè
nella vita.”
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COME NASCE LA DITTATURA DELLA
RAGIONE?
“È
importante osservare che i manicomi sono nati in un momento in cui il
mondo cambiava e nasceva un nuovo umanesimo. Le scienze dell'uomo
nascono infatti dopo la Rivoluzione francese, quando si affermano sia la
ragione che la fraternità. Questi diventano gli emblemi del nuovo mondo.
Una società per essere civile deve essere razionale. Ecco perché da quel
momento tutto ciò che è irrazionale deve essere controllato dalla
ragione. È così che nasce l'istituzione razionale del manicomio che
racchiude l'irrazionalità. Una persona folle diventa nuovamente
razionale nel momento in cui è internato in manicomio.”
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DALLO STIGMA ALLA POVERTÀ, DALLA
POVERTÀ ALLO STIGMA
“Quando la psichiatria entra
in manicomio incontra una società ben definita: da un lato i “folli
poveri”, dall'altro i ricchi, la classe dominante che dispone dei mezzi
per il trattametno dei poveri folli. Sotto questa angolatura, come
possiamo pensare che la psichiatria possa essere liberatrice? Lo
psichiatra sarà sempre in una posizione di privilegio, di dominio nei
confronti del malato. Anche questo fa parte di ciò che la storia della
psichiatria fa capire. Essa è storia dei potenti, dei medici, e mai dei
malati. Da questo punto di vista la psichiatria è fin dalla nascita una
tecnica altamente repressiva, che lo Stato ha sempre usato per opprimere
i malati poveri, cioè la classe lavoratrice che non produce.”
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CHI NON ACCETTA IL RAZIONALE
RICEVE LO STIGMA
“Penso che ciascuno di noi può
essere stigmatizzato, criminalizzato quando non è più utile
all'organizzazione sociale, che può eliminarti anche col pregiudizio e
il preconcetto. Per esempio, se voglio eliminare una persona che mi è
antipatica posso dire che è stupida: è il metodo più tranquillo di
eliminare qualcuno. Nella misura in cui convinco gli altri che questa
persona è stupida, essa sarà considerata davvero stupida.”
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LA PSICHIATRIA COME STRUMENTO DI
CONTROLLO DEL POVERO FOLLE
“Dopo
Pinel, se esaminiamo la storia della psichiatria, vediamo emergere nomi
di grandi psichiatri; ma del malato di mente esistono solo
denominazioni, etichette: isteria, schizofrenia, mania, astenia ecc. La
storia della psichiatria è storia degli psichiatri, non storia dei
malati. Fin dal Settecento questo tipo di relazione ha legato
indissolubilmente il malato al suo medico, creando una condizione di
dipendenza dalla quale il malato non è mai riuscito a liberarsi. Direi
che la psichiatria non è mai stata altro che una brutta copia della
medicina, una copia nella quale il malato appare sempre totalmente
dipendente dal medico che lo cura: importante è che il malato non sia
mai in una posizione critica nei confronti del medico.”
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ISTITUZIONALIZZAZIONE: LA
SOGGETTIVITÀ DEL “FOLLE” VIENE CANCELLATA
“Se noi
seguiamo il modo in cui viene ricoverata una persona in manicomio, e la
rivediamo dopo un anno, noi possiamo cogliere bene “il vortice degli
inganni”, tutto l'iter attraverso il quale la persona viene ridotta a
cosa. La persona che viene internata protesta per il suo internamento e
la prima cosa che viene fatta è un'iniezione, se non viene legata con la
camicia di forza. Comincia così la “carriera morale del malato di mente”
che a un certo punto capisce che è meglio adattarsi agli ordini
dell'istituzione, non ribellarsi. Si avvia così quel processo chiamato
istituzionalizzazione: la persona , il folle incarcerato dalla e nella
malattia viene incarcerato nell'istituzione, e in questo momento la
persona sofferente diventa un oggetto dell'istituzione, docile come una
bestia selvaggia addomesticata.”
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NEL MANICOMIO L'UNICA TERAPIA È LA
DIPENDENZA
“Nel
manicomio la condizione di potere nel medico e di dipendenza del malato
non dà alcuna possibilità di mettere in atto una terapia. È per questo
che noi proponiamo l'eliminazione di queste istituzioni che si chiamano
manicomi. Perché nel manicomio non si può praticare alcuna terapia data
la relazione di potere del medico sul malato. La terapia ha senso quando
c'è reciprocità fra malato e medico. La terapia analitica come mezzo di
gestione è molto significativa in questo aspetto. All'interno della
terapia analitica la cosa più importante è il denaro, cioè il fatto che
il paziente deve pagare. Questa situazione – e non sto dicendo che sia
giusta o sbagliata – pone medico e paziente in una posizione di
uguaglianza: il medico ha degli obblighi per via del denaro che riceve,
e il paziente ha dei diritti per via del denaro che gli dà. Questa è una
situazione di reciprocità perché tutti e due sono impegnati nel
trattamento terapeutico. Quando parliamo di miseria, quando affrontiamo
la follia in mezzo alla miseria, la persona che sta male deve poter
capire che il medico è lì per darle una mano, per aiutarla, che non è in
una situazione di potere, ma di reciprocità, e quindi di “terapeuticità”.
Ma nel manicomio non può esistere terapia perché esiste solo una
relazione di potere. Invece noi dobbiamo andare alla ricerca di una
situazione di complicità e di reciprocità verso e con il malato. È solo
così che possiamo parlare di terapia. In caso contrario possiamo parlare
solo di dipendenza e di schiavitù.”
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LA PSICHIATRIA: UNA PRASSI SENZA
TEORIA, UN MERO ESERCIZIO DI POTERE
“Ho
parlato in generale della relazione tra potere e sapere. Il campo della
psichiatria è forse l'esempio più semplice per capire questa
contraddizione. Possiamo dire che dal punto di vista del sapere lo
psichiatra è il medico più ignorante: non sa niente ma compensa questa
carenza con il potere. Nel manicomio questo è evidente. Ci sono poi i
vari psicoanalisti, psicoterapeuti, psichiatri ecc. Ognuno tenta di dare
una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se noi parlassimo
con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno ciò che è la
follia, e ciascuno ammetterà anche che la relazione con il paziente è
una relazione di potere.”
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LA NUOVA PSICHIATRIA DEMOCRATICA:
DALLA MALATTIA AL MALATO
“Vedemmo che, dal momento in
cui davamo risposte alla povertà dell'internato, questi cambiava
posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale
potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un individuo
malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma
molte altr ecose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha
bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di
una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo
abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è
solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità.”
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IL COMPITO DEL TECNICO: FAVORIRE
LA PRESA DI COSCIENZA DELL'OPPRESSO
“Il problema è che le persone
devono prendere coscienza politica dell'alienazione e della violenza in
cui vivono. Per esempio, se in una famiglia vi è un bambino
handicappato, i genitori che hanno bisogno di lavorare hanno due
possibilità: o uno dei due non va a lavorare e si prende cura del
bambino, o lo mettono in istituto. Il nostro dovere di medici è spiegare
ai genitori che non devono mettere il bambino in istituto perché là
diventerà ancora più handicappato. È evidente che così si stimola la
coscienza politica della famiglia, che può pretendere, per esempio, la
creazione di asili dove il bambino possa andare quando i genitori
lavorano. Si tratta di un diritto del cittadino, e noi come tecnici
dobbiamo promuovere questa coscienza dei diritti.”
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IL PASSAGGIO DAL MANICOMIO AL
MONDO DEI “NORMALI”
“Quando
un internato esce e ritorna alla vita sociale, si crea una nuova
contraddizione che tende a riportarlo nuovamente in manicomio. In questo
momento è importante che possa nascere nella comunità una presa di
coscienza, ed è anche importante che io come tecnico nuovo non stia
dalla parte della classe dirigente ma sia direttamente legato alla
classe che soffre queste contraddizioni. È importante che io entri
direttamente nel tessuto sociale per creare i presupposti di un consenso
finalizzato, non tanto a una maggiore tolleranza, quanto a una presa di
responsabilità, a una presa in carico da parte della comunità di
problemi che le appartengono.”
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ABBIAMO VINTO UNA BATTAGLIA MA NON
LA GUERRA
“Dopo
vent'anni di lotta, e dopo aver convinto non tanto il governo quanto le
organizzazioni politiche e sociali della necessità di un cambiamento
nell'assistenza, abbiamo ottenuto una legge che dobbiamo difendere
giorno per giorno perché, anche se si tratta di una legge dello Stato,
la maggioranza non vorrebbe applicarla, gli psichiatri tradizionali non
vorrrebbero applicarla perché segna la perdita del loro potere. Di fatto
questa legge è la perdita di potere degli psichiatri tradizionali ma
insieme la messa in opera di un nuovo sapere. Naturalmente noi dobbiamo
essere molto vigili perché questa minoranza, una volta catturata, può
diventare la nuova maggioranza riciclata.”
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«Se, infatti, il malato è l'unica
realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di
cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato,
con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e
quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una
comunità che vuol essere terapeutica deve tener conto di questa duplice
realtà - la malattia e la stigmatizzazione - per poter ricostruire
gradualmente il volto del malato così come doveva essere prima che la
società, con i suoi numerosi atti di esclusione, e l'istituto da lei
inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa.
Tuttavia, soltanto tenendo presente
l'estrema ambiguità della situazione che stiamo vivendo, si riuscirà ad
evitare l'edificazione di una nuova ideologia: quella dell'ospedale
aperto, delle comunità terapeutiche, proposte come soluzione al problema
del malato mentale. La nostra realtà è affondata in un terreno
profondamente contraddittorio e la conquista della libertà del malato
deve coincidere con la conquista della libertà dell' "intera comunità".
Si tende, infatti, verso una nuova psichiatria basata sull'approccio
psicoterapico con il malato, e si è invece ancora invischiati in una
realtà psichiatrica legata ai vecchi schemi positivisti; ci si orienta
verso la costituzione di nuclei ospedalieri che tengano conto del gioco
delle dinamiche interne ai gruppi e dell'apporto delle relazioni
interpersonali, non avendo altri modelli cui riferirsi che quelli di un
sistema autoritario e gerarchico; ci si sforza di trasformare l'Ospedale
Psichiatrico in un centro retto - per quanto possibile -
comunitariamente si è invece nostro malgrado inseriti in una realtà
sociale ad alto livello repressivo e competitivo; si tende ad affrontare
comunitariamente il malato mentale per farlo uscire dallo stato di
regressione in cui è stato indotto, e si rischia di provocare in lui un
nuovo tipo di disadattamento al clima istituzionalizzato della società».
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Il "malato
mentale" che incontriamo negli asili psichiatrici è, infatti, la realtà
che contesta la psichiatria così come il bambino che muore di fame
contesta la "letteratura". Ma se è solo l’emozione che io provo davanti
al malato che mi spinge ad agire nei suoi confronti, non è possibile
riempire il vuoto che lo separa dalla scienza che dovrebbe occuparsi di
lui. Quindi, o la parola conserva la sua ambiguità di essere "parola"
che contemporaneamente modifica ciò che disegna (e allora la psichiatria
deve essere una scienza che agisce direttamente sul malato come ciò che
il discorso psichiatrico deve designare per modificare); o si prende un
solo polo di ambiguità e si fa, da un lato, della "letteratura"
(discutendo sulle classificazioni e sottoclassificazioni delle
sindromi); e dall’altro una analisi emotiva del "malato" e della
deprecabile situazione in cui si trova. Rifiutando invece e la sterile
"letteratura" psichiatrica e lo sterile rapporto puramente umanitario,
si sente l’esigenza di una psichiatria che voglia costantemente trovare
la sua verifica nella realtà e che nella realtà trovi gli elementi di
contestazione per contestare sé stessa
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Iniziative svolte |
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